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Museo delle Enciclopedie
Sede provvisoria: Via Dante Alighieri 12, Castell'Azzara (Grosseto) 

Il Museo delle Enciclopedie è una istituzione culturale privata fondata dal Prof. Alfredo Mariani,
a disposizione di studenti, ricercatori, autori ed insegnanti.
E di chiunque ritenga la salvaguardia della Cultura una necessità prioritaria.


Riflessioni ed analisi sul ruolo della scuola
come istituzione fondamentale nella salvaguardia
della Cultura e della Conoscenza


La finalità principale alla base della idea della fondazione di un museo delle enciclopedie è stata quella della salvaguardia della
Cultura attraverso la conservazione, la salvaguardia e la tutela della Conoscenza. Riteniamo che queste finalità dovrebbero essere
totalmente condivise da quella istituzione che prima tra tutte dovrebbe oocuparsene: la scuola.
Invece dobbiamo purtroppo riscontrare che la scuola è da tempo oggetto in Italia di interessi di diverso tipo e soprattutto guidata
verso direzioni ben diverse da quelle che dovrebbero rappresentare i suoi obiettivi.
Il sito del Museo delle Enciclopedie ospita analisi e riflessioni di alcuni Autori che consideriamo importanti
punti di riferimento nel dibattito sulla scuola italiana, e dei quali condivide e apprezza i contenuti.



Il Prof. Luca Malgioglio in questo suo testo porta alla luce le contraddizioni ed i malesseri della scuola italiana
contemporanea denunciando un vero e proprio "Assalto alla scuola".
Il titolo non è provocatorio ma assolutamente descrittivo di quanto sta accadendo nelle scuole italiane
nella quasi totale indifferenza dei loro stessi protagonisti: gli insegnanti, gli studenti e i loro genitori. Indifferenza legata
ad incapacità a comprendere, fino invece alla complicità dovuta alla condivisione di interessi da parte degli organi e delle persone che si dovrebbero occupare di corretta informazione. Un volta si chiamava "giornalismo", poi si è definito "media", adesso è rimasto quasi soltanto un indistinguibile vociare di assurdità da parte di chi ha il privilegio dell'accesso ai mezzi di comunicazione di massa,
sempre con riferimento alla scuola.
Un "privilegio di accesso" che viene abitualmente pagato con la rinuncia alla libertà di espressione da parte di sedicenti intellettuali.
Il Prof. Malgioglio fa chiarezza su quanto sta accadendo, e questa chiarezza non può che essere condivisa dal Museo delle Enciclopedie, istituzione che ha a cuore quel valore insostituibile rappresentato dalla salvaguardia della Cultura e della Conoscenza, e che dovrebbe innanzitutto vedere le scuole come luoghi della sua applicazione e del suo svolgimento.



Prof. Luca Malgioglio


L'assalto alla scuola

Dunque, facciamo qualche ipotesi fantasiosa: gran parte del mondo politico, di cui l’attuale ministero sembra rappresentare l’incarnazione e la sintesi, porta avanti lo smantellamento progressivo della scuola pubblica previsto dall’ideologia liberista (cfr. ad esempio lo splendido saggio di Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019); poiché questo smantellamento non può essere dichiarato come tale, si cercano ragioni ideali con cui rivestirlo e mascherarlo; queste ragioni vengono trovate in un piccolo gruppo di attardata “innovazione didattica e pedagogica”, che partendo da istanze condivisibili come quella di stimolare processi di apprendimento più attivi ed esperienziali degli studenti, arriva a una visione settaria e fanatica di una scuola in cui diventa una grave colpa il fatto che l’insegnante spieghi o addirittura insegni qualcosa ai propri studenti. Il totalitarismo metodologico di questa setta svuota di importanza i contenuti culturali e il sapere, e trova punti di incontro con la visione tecno-burocratica delle “competenze”, un fumoso “saper fare” che scivola presto in un’ottica produttivistica ed economicistica (“stimolare l’imprenditorialità”, le competenze del “capitale umano”) o nella formulazione paradossale delle “competenze non cognitive” (“adattabilità”, “affidabilità”, “saper essere”, “prendere decisioni” e “risolvere problemi”: non si capisce come, senza avere “cognizioni” e conoscenze). Con questa definizione insensata – “competenze non cognitive” – si punta in realtà a ridurre una scuola che dovrebbe essere educazione attraverso l’istruzione e la conoscenza (unica educazione possibile degna di questo nome) ad addestramento, attraverso la sottrazione programmatica del pensiero, dell’elaborazione mentale, di contenuti culturali sui quali gli studenti possano esercitare la propria intelligenza e il proprio senso critico.
Una volta che si sarà fatta passare l’idea che la scuola migliore è quella che non insegna niente, dimostrarne l’inutilità e spazzarla via sarà un gioco da ragazzi. E l’intergruppo parlamentare per la “sussidiarietà” (quello di Lupi-Aprea, che fa lobbying per sostituire il pubblico col privato, come nella sanità, e, non a caso, ha presentato il disegno di legge per le “competenze non cognitive”), chissà, potrebbe aver raggiunto un importante scopo.
***
Fa impressione vedere una consorteria di pseudo-progressisti con una lunghissima consuetudine col potere – ex dirigenti scolastici, ex burocrati ministeriali, ex ispettori, ex consulenti, ex portaborse, dirigenti scolastici carrieristi che non hanno idea di cosa sia l’insegnamento, politicanti senza arte né parte, economisti pd-confindustriali, pedagogisti di regime che non mettono piede in una classe da quarant’anni – convinti di incarnare il “nuovo”, l’ “innovazione didattica”, convinti di sapere meglio degli insegnanti – che vivono tutti i giorni il rapporto con gli studenti – di che cosa gli studenti e gli insegnanti DEBBANO aver bisogno. Bisognerebbe far sapere all’opinione pubblica che quando le “riforme” sono fatte sulla testa di chi nella scuola ci lavora e da chi di scuola non capisce nulla, il vero obiettivo non può che essere il suo smantellamento, a favore di ‘esperti’, aziende, enti, ‘formatori’, che tutto hanno a cuore tranne la crescita umana e culturale delle nuove generazioni.
***
Con la finzione del “mettere gli studenti al centro”, si sostituiscono i contenuti, i saperi, le storie, le idee, le conoscenze, con metodologie e procedure astratte e burocratizzate che, a differenza dei contenuti culturali, non hanno nulla da dire agli studenti, nulla su cui essi possano misurare la propria intelligenza, mobilitare il proprio mondo affettivo, far crescere la propria umanità. Non si parla più di metodi per condividere contenuti e saperi importanti; il rapporto tra il “come” e il “che cosa” viene reciso e le ‘metodologie’ fluttuano nel vuoto, in un’idea del tutto astratta di insegnamento, e servono solo a confermare se stesse. Sembra che si punti a sostituire la passione per la conoscenza e per la scoperta culturale, l’unica che possa incuriosire e motivare i ragazzini, con l’ ‘erotizzazione’ dei mezzi, delle procedure burocratiche e delle metodologie. Inutile dire – ogni insegnante lo sa – che senza il lavoro comune sulle conoscenze e sui contenuti culturali viene meno anche la relazione educativa, il rapporto umano, quello cioè che è il vero cuore della vita scolastica: le facce degli studenti non si distinguono più l’una dall’altra, i loro bisogni, le loro domande, le situazioni concrete, le parole e ciò che gli insegnanti possono davvero dare loro non contano più niente. C’è solo l’idolatria astratta e fanatica dei “mezzi”, e tutto diventa ‘adempimento’. Altro che studenti al centro.
***
Racconto raccapricciante di una collega che ha appena frequentato un corso di formazione, di quelli in cui si dice che non bisogna assolutamente più parlare di conoscenze, di studio, di discipline, di libri, nemmeno di metodi, ma solo di competenze, percorsi, metodologie, flipped classroom, cooperative learning, didattica digitale, senza nessun collegamento con la concreta situazione didattica e relazionale in cui ci si trova e con i contenuti culturali (espressione vietatissima in questi contesti) che si vogliono proporre, gli unici che danno sostanza all’istruzione.
Questo scambio tra mezzi e fini ovviamente non ha nulla a vedere con l’autentica formazione, che dovrebbe semmai aiutare gli insegnanti a trovare ogni giorno le parole giuste da usare con i propri studenti, a rapportarsi con loro, a comprenderli meglio, ad avere qualcosa di culturalmente sensato da dire loro: è solo indottrinamento da parte di chi non sa nemmeno come è fatta una classe, e forse non sa nulla tout court, a parte dieci formulette in didattichese, e vuole ridurre tutti al livello della propria ignoranza.

Per leggere l'articolo sul sito di prima pubblicazione:  
https://nostrascuola.blog/2021/12/28/la-scuola-minacciata/

 






 
Il Prof. Edoardo Gianfagna presenta una attenta riflessione sull'evoluzione storica del concetto di "trasmissione della conoscenza" e su come,
nella scuola italiana dei nostri giorni, esso venga sminuito a favore di mai ben specificate "competenze" da parte di non pochi divulgatori
o sedicenti intellettuali che sembra perseguano altre finalità da quelle di una didattica centrata sulla promozione e lo
sviluppo della Cultura attraverso la Conoscenza.Il Museo delle Enciclopedie apprezza e condivide pienamente il pensiero del Prof. Gianfagna,
lo ritiene perfettamente coerente con le finalità di salvaguardia e conservazione della cultura e della conoscenza perseguite dal Museo
e si onora di ospitarlo sulle proprie pagine.


Prof. Edoardo Gianfagna

La t
rasmissione della conoscenza



Una delle cose che più mi colpiscono, da quando si parla della necessità di una
nuova didattica, è il contrasto tra la sicumera di coloro che mettono sotto accusa
la scuola «trasmissiva» e la modestia culturale dei loro argomenti1.

Che cosa è mai la scuola trasmissiva? Corrisponde al semplice, antico bisogno
di raccogliere e conservare il significato delle esperienze che altri esseri umani
hanno fatto prima di noi. È un’idea semplice, benché impegnativa. Si tratta di
conoscere il vissuto degli individui e dei popoli del passato, anche attraverso lo
studio delle loro conquiste in campo scientifico, tecnico, artistico e letterario,
filosofico e religioso. Lo scopo implicito è quello di esercitare il pensiero critico
sulla realtà attuale anche alla luce di quelle conoscenze.

Non c’è alcuna vera comprensione senza conoscenza.
N
on c’è alcuna vera conoscenza nemmeno di quelle realtà che diremmo recenti o nuovissime
senza la padronanza dei termini, dei concetti e delle idee che il passato ci ha
consegnato per farne un uso libero. Non c’è vera libertà senza quel tipo di
conoscenza perché, anche quando ci limitiamo a descrivere ciò che abbiamo
dinanzi agli occhi, anche quando immaginiamo il futuro, non possiamo che
partire dai termini, dai concetti e dalle idee che ci hanno condotto sin qui.
I padri desiderano trasmettere ai figli il senso della loro esperienza, vogliono
che essi ne facciano tesoro per vivere un futuro il migliore possibile. Dunque
insegnano loro ciò che hanno appreso, a proprie spese, raccontano di sé, di ciò
che è stato loro raccontato dai padri e dai nonni. Non importa che i figli, presto o
tardi, cerchino di ribellarsi ai genitori, di liberarsi di quelle presenze ingombranti
e della loro memoria. Anzi; quella ribellione è esattamente il risultato di
un'intuizione: vivere portando sulle spalle tutto quel passato, quell'enorme
fardello di esperienze dei propri avi è pesante, è un'enorme responsabilità che
viene da una visione di sé attraverso il tempo.

Le generazioni più giovani sentono che hanno problemi nuovi da risolvere, e
che quei problemi si sono configurati nel tempo. Per questo presto o tardi
avvertono di non poter gettare via il patrimonio di esperienze che è giunto loro
dal passato senza pagarne il duro scotto: si tratta di scegliere cosa conservare, e
cosa gettare via, cosa migliorare e cosa valorizzare. Solo i superbi negano
dessere stati creati, credono d’essere il principio e la fine della propria storia.
Una scuola che non trasmette è una scuola che prepara una società disponibile
ad accettare tutto, a far passare qualsiasi cosa, giacché senza storia non c'è nulla
cui sottrarsi, nulla da preferire, nulla cui ribellarsi: senza consapevolezza di una
continuità o di una discontinuità2 rispetto al passato non c'è nulla a cui appellarsi
a riprova delle proprie scelte, nulla che sia peggio e nulla che sia meglio. Sento di
poter far mie le parole di Edmund Burke (1729-1797), che scriveva:


Ci guardiamo bene dal permettere agli esseri umani di vivere e
agire sulla sola scorta dei
lumi della propria individuale razionalità, perché sospettiamo che tale scorta sia assai
limitata in ogni individuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio
generale di esperienza accumulato dai popoli nel corso di lunghi secoli3.

Nell’idea di una s
cuola non trasmissiva, oppure dato lo stato dei fatti anche
solo meno trasmissiva è annidato il solito, vecchio, ridicolo eppur
pericolosissimo credo secondo cui tutto ciò che ci parla dal passato si può rifare
da soli, e meglio di come è stato fatto fino ad ora, senza maestri ed autorità4.

Non sto affatto dicendo che le cose che il passato ci affida non possano essere
discusse, migliorate e persino rifiutate e superate; sto dicendo che, secondo molti
novatori, il progresso individuale e collettivo dovrebbe essere costruito
liberandosene poco a poco, quasi si trattasse di una zavorra: non c’è molto altro
nella visione di chi porta al parossismo il discorso sulle metodologie didattiche e
non spende una parola sui contenuti di studio. Secondo questi novatori si
tratterebbe di fare esperienza diretta della realtà per affermare la propria
autonomia e sviluppare la propria intelligenza; si tratterebbe di conquistare con le
proprie forze e per intero le idee in nome delle quali spendersi. Secondo queste
persone l’uomo nuovo non potrà fiorire finché vedrà le cose attraverso le vecchie
lenti, cioè continuando a fidare nel magistero di chi ci ha preceduto.
Dietro tutto ciò c’è una grande trascuratezza logica. Sfugge l’idea che le
conoscenze che giungono a noi dal passato sono a tutti gli effetti una parte della
realtà di cui fare esperienza; anzi, esse sono proprio la parte della realtà sulla
quale chi desidera sviluppare intelligenza ed autonomia critica può applicarsi con
maggior profitto personale e collettivo.

***
Proprio come gli altri artigiani o artefici medievali (il carpentiere, il fabbro, il
conciatore, il bottaio) il pittore medievale apprendeva il mestiere della
decorazione o dellaffresco nella bottega dov’era giunto quasi fanciullo e dove
restava per anni a fare apprendistato. In quel luogo egli osservava i gesti del
maestro, si cimentava con le prime preparazioni, prendeva confidenza con gli
attrezzi, i ponteggi, i leganti, le terre e i pigmenti, ed infine si metteva anch’egli
all’opera. Quell’annoso tirocinio non era certo infruttuoso: l’arte medievale
comunica per vie segrete un mondo spirituale ineffabile rispetto al quale
l’impegno creativo e tecnico non è che una traccia nascosta, talvolta anonima o di bottega,
eppur
sincera e fedele ai modi di chi non ha affatto a cuore la gloria,
ma piuttosto il dissolvimento del proprio sé in Dio.
Nella misura in cui l’apprendimento si limitava ad un apprendimento per pura
via pratica, l’allievo della bottega medievale poteva essere destinato a replicare il
lavoro del maestro, rimanendo al di qua duna piena consapevolezza circa i
significati di cui si faceva portatore, al di qua di ogni discussione teorica. Il
maestro di bottega era padrone ed educatore, ma gli apprendisti non ricevevano
da lui una vera istruzione. Solo dal Duecento, in centro Italia, alcuni giovani
apprendisti, dopo una prima alfabetizzazione in lingua volgare e in latino,
venivano avviati presso le scuole d’abaco per imparare la matematica. Quelle
scuole erano però destinate soprattutto ai figli dei commercianti.
Ogni innovazione introdotta dall’allievo dipendeva da una particolare
configurazione di circostanze materiali, attitudini, intraprendenza, spirito
d’iniziativa. Tuttavia è bene dire che, tanto nei modi di raffigurare il mondo
terreno e spirituale, quanto nell’immagine che l’artista-artigiano aveva di sé, in
quell’epoca prevaleva una tendenza alla generalizzazione ed alla tipizzazione
della realtà rappresentata. L’allievo poteva certo superare il maestro, ma quel
«superare» non era il suo scopo. Come spiega anche lo storico Aron Gurevič, nel
Medioevo

all’individualità non si dà valore, né la si approva, la si teme e non solo negli altri; l’uomo
si guarda dall’essere se stesso. La manifestazione dell’originalità, della singolarità aveva
l’aroma di eresia. L’uomo soffriva sapendo di non essere come tutti gli altri5.

La formazione che si riceveva in bottega non era finalizzata a far emergere la
novità, lo stile o la personalità artistica: si trattava di carpire alcuni segreti dal
maestro e di mettere a frutto l’annosa osservazione per poter campare del
mestiere. Ogni tecnica presupponeva, come ovvio, una teoria; ma quella teoria,
almeno fino alla svolta avvenuta attorno al XIII secolo, non era che il lato
trasparente ed inconsapevole dell’opera, tramite la quale si cercava di conseguire
una verità superiore.

Il salto di qualità, il passaggio dal fare artigianale a quello che oggi chiamiamo
«fare artistico» diveniva possibile solo quando il singolo trovava la forza di porre
in discussione i presupposti teorici impliciti nel linguaggio che aveva ereditato,
che pure poteva produrre ardenti capolavori. La cultura evolve anche attraverso
forme d’imitazione che pur senza volerlo s’aprono dei varchi nella continuità.
Ma, così come il cambiamento può essere fine a se stesso, allo stesso modo
l’imitazione può essere sterile6, allorché si verificano gli effetti simili di due
errori concettuali opposti: la credenza secondo cui l’introduzione della mera
discontinuità possa di per sé costituire un miglioramento; e la credenza secondo
cui il mantenimento della continuità possa prevenire l’insorgenza di nuovi
problemi. Ciò che accomuna questi errori è, con tutta evidenza, la mancanza di
distinzione tipica di un’elaborazione teorica fragile.
Ebbene, l’allievo della bottega di fine Medioevo attraversava un momento
felice proprio perché sentiva che nella continuità andavano aprendosi spiragli
attraverso i quali passavano significati mutuati dal passato, e che quei significati
avrebbero potuto aiutarlo nel rispondere ai suoi nuovi problemi. Cominciava ad
avvertire che la propria mano, il proprio tratto, il proprio modo di guardare la
realtà non trovavano più una corrispondenza davvero soddisfacente negli stilemi
appresi dal maestro, che li aveva a sua volta ereditati facendo. Quellallievo
assisteva all’evoluzione dei propri bisogni espressivi, e li scopriva diversi da
quelli che aveva transitoriamente fatto propri: essi prendevano forma nel
pensiero che accompagnava le sue pratiche consuete, trasformandole
dall’interno. Dunque, prefiggersi nuovi scopi, per l’allievo, significava dare vita
a un discorso teorico (non importa se tradotto in testo scritto oppure no) cioè a un
discorso sui fini ultimi da perseguire attraverso la propria opera.

[...] della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera7

Non sto affermando che, fino a quel momento, le diverse botteghe medievali
cercassero l’omologazione per ragioni estetiche; sto affermando che anche in
quei luoghi d’arte, come ovunque a quel tempo, l’esperienza degli esseri umani
era finalizzata a compiacere un ordine di tipo ultraterreno (fatto di vocazione,
servizio, ufficio) che collocava in secondo piano qualsiasi riflessione su altri
scopi: per questa ragione le soluzioni formali ai problemi funzionali ed estetici
tendevano a perpetuarsi in una dimensione extratemporale, seppure dotata di
fascinazione e potenza.

A partire dall’età umanistica in Europa presero piede botteghe d’artefici-artisti
capaci di promuovere rilevanti cambiamenti, tentare maniere nuove, andare oltre
le regole, anche in ragione delle sopravvenute condizioni socio-economiche
favorevoli. Ciò non accadde lo ripeto perché il cambiamento era perseguito,
ma perché qualcuno era ora disposto ad affrontarlo (con lincertezza che poteva
derivarne, anche rispetto alla committenza) pur di soddisfare i nuovi bisogni
espressivi. L’introduzione di tecniche, di strumenti e di materiali innovativi si
intrecciò vigorosamente con le propensioni emergenti, assecondò le mutate
aspettative: si pensi al recupero della prospettiva8, all’impiego della camera ottica
o alla diffusione del colore ad olio a partire dal Nord Europa, che, in fasi diverse,
rimarcarono la disponibilità a ripensare il mestiere, affrancandolo grado a grado
dalla fissità di una ricerca trascendente, e alimentando una riflessione sull’artista
stesso, sul suo ruolo e sui fini ch’egli doveva perseguire. Va da sé che solamente
alcuni individui furono disposti a fare quella riflessione. E solo alcuni tra questi
divennero anche autori di testi teorici.

Dalla prima metà del Quattrocento si diffuse anche la stampa, e con la stampa
di alcune opere classiche la cultura ritrovò poco a poco un’organizzazione e una
sistematicità ch’erano andate perdute da secoli; molti individui cólti promossero
una fruttuosa convergenza tra il sapere umanistico e quello scientifico; vari
campi di studio un tempo floridi (come la meccanica o l’anatomia) tornarono a
suscitare un vero interesse, ed altri (come l’ottica) recuperarono il peso ch’era
andato smarrito. Mutarono in modo radicale i rapporti tra la teoria e la pratica, e
le applicazioni tecniche derivanti da conoscenze prima vaghe, o percepite come
solo speculative, incisero in profondità nella vita quotidiana.

Vaste porzioni del fare artigianale medioevale si trasformarono grazie al
crescere di individuali capaci di (cioè atte a contenere) un diverso paradigma
creativo, che diede alimento a forme d’arte prima impensate. Le novità non
furono partorite da geni isolati, da individui sconnessi dalla realtà storica, oppure
da fantasie scaturite per generazione spontanea; neppure dalla stanchezza
generata dalla ripetizione. Il dispiegarsi di personalità artistiche indocili o più
ricettive non era di per sé sufficiente: erano necessarie anche proposte nuove,
diverse condizioni operative, stimoli che mettessero in discussione le vecchie
regole. La collaborazione tra gli studiosi umanisti e gli artefici delle botteghe,
sostenuta dal simmetrico interesse a migliorare le pratiche attraverso lo studio
della teoria e a comprendere meglio la teoria attraverso l’esemplificazione
pratica, portò ad accumulare una crescente consapevolezza del debito verso la
cultura greca, romana e bizantina.

Tra i molti stimoli operanti, lo studio delle opere del mondo antico occupa un
posto di assoluto rilievo. Per alcuni rappresentò una luminosa opportunità, per
altri forse l’inesorabile discesa d’una cortina sulle poche ma grandi certezze
del mondo medievale, che tornò a godere di un’adeguata considerazione solo
dopo diversi secoli. D’altra parte anche il Medioevo aveva i propri evidenti debiti
(verso il mondo greco-bizantino, per esempio): coloro che seppero andare oltre
come Giotto non peccarono affatto d’ingratitudine, giacché non rinnegarono i
propri debiti palesi; accettarono piuttosto di contrarne altri.

Ecco, l’Umanesimo e il Rinascimento contrassero un nuovo rilevante debito
tecnico ed ideale verso splendenti civiltà che fino a due secoli prima apparivano
sepolte per sempre. Il rapporto tra l’artefice (o l’artista) e l’antichità differiva in
modo sostanziale da quello pur forte e reale dell’allievo con il maestro della
bottega medievale, di cui il primo poteva emulare per anni lo stile e le soluzioni
formali. Nel Medioevo il linguaggio pittorico era appreso per assimilazione, per
immersione immediata nell’ambiente di lavoro. L’artista assorbiva l’espressività
e la simbologia di quella «scuola» sulla scorta di una pratica che, di per sé stessa,
non esigeva ch’egli incarnasse un ruolo intellettuale pienamente critico. Durante
il Rinascimento crebbe invece, un po' ovunque in Italia, una vera e propria
autocoscienza estetica, promossa anche attraverso la stesura di opere di carattere
teorico9.

.C’è un aspetto, di questo processo di intellettualizzazione dell’arte e delle
tecniche artistiche, di cui forse anche a scuola si parla poco; eppure fu centrale
nella determinazione della mentalità rinascimentale. L’artista posto di fronte
alle opere antiche era chiamato a riconoscere e ad ammirare un equilibrio
razionale estraneo alle idee codificate nella pratica corrente; provava una sublime
fascinazione, generata dall’impossibilità di immergersi in modo immediato in
segni che percepiva come lontani e purtuttavia internamente coerenti, dotati di
ragioni profonde rispetto a cui non poteva dirsi estraneo.
All’artista medievale era possibile colmare la distanza che lo separava dalla
cultura antica con la quale cercava di entrare in contatto: ma solo a costo di un
vero sforzo di mediazione ed astrazione intellettuali (si pensi al caso di coloro
che studiarono la grammatica latina e greca per attingere alle fonti originali,
scavalcando la mediazione dei traduttori; oppure a coloro che si interessarono
all’archeologia per avvicinare quel mondo lontano). Quello sforzo rivolto a
comprendere ciò che era lontano e diverso preludeva sovente alla radicale messa
in discussione delle regole e degli stilemi consolidati: perché conoscere davvero
l’alterità ci interroga in profondità. L’apprendimento per immersione, alimentato
d’emulazione pratica, è immediato, tende alla replica10dell’altrui pensiero, spinge
alla conformità più che alla varietà; lo studio teorico di ciò che ci è estraneo
incoraggia l’atteggiamento di ricerca, rinforza il dubbio e la mediazione
nell’elaborazione intellettuale.

Dunque, in virtù dell’incontro con quella cultura trasmessa da un mondo
passato, i letterati e gli artisti del tardo Medioevo iniziarono a cimentarsi in
modo sistematico con idee e forme alternative a quelle correnti: anche così la
pittura, la scultura e l’architettura diluirono il loro carattere replicativo, si fecero
pratiche pensate, capaci di dar luogo ad una ricca fioritura di espressioni
individuali11. Alcuni mestieri artigianali acquisirono uno statuto autonomo.
L’introduzione di un cospicuo momento interpretativo all’interno di quel
complesso di conoscenze risalenti ad un’epoca lontana, moltiplicava gli
interrogativi e, di conseguenza, anche le chiavi di lettura da utilizzare per
comprendere il presente. La società medievale, che fino ad allora era stata severa,
spesso monolitica o addirittura dogmatica, e che, in conseguenza di ciò, aveva
sovente affidato a linguaggi ripetitivi, rassicuranti ed anonimi (cioè non
autoriali) la rappresentazione dell’uomo, si mise in ascolto della varietà di voci
animate dalla rivitalizzazione della cultura antica.
Lo storico Gurevič illustra in modo esemplare questo potente processo di
rivitalizzazione ricorrendo allo stravolgimento di un’espressione evangelica: «nei
vecchi otri si cominciava a versare del vino nuovo». La sua lucida analisi si
sofferma anche sulla vicenda paradigmatica di un predicatore del XIII secolo,
tale Bertoldo di Ratisbona. Questi, capace di adunare immense folle di fedeli,
impiegò ripetutamente la famosa parabola dei talenti12per sviluppare e proporre,
nel corso degli anni, idee innovative su come dovesse essere un buon cristiano.
Le idee che espose a più riprese erano sì il risultato di una ricerca valoriale
indefessa, tuttavia erano anche il portato dellesegesi di un testo evangelico di
valore morale senza tempo, dal quale l’anelito religioso di Bertoldo aveva tratto
continua ispirazione. Attraverso quelle idee, come attraverso molte altre idee in
via di gestazione ed elaborazione, si delineavano poco a poco i caratteri peculiari
dell’individuo, cioè di un’entità che andava rivelandosi a se stessa, addensando
tratti di tipo psicologico e morale che prima apparivano vaghi ed imprecisi.
Allora anche l’interpretazione e l’attualizzazione tardomedievale dei testi sacri
come avvenne con il recupero dell’arte classica consentì, in questo come in
altri casi, di guardare alla realtà umana con occhi mutati: nemmeno l’impegno di
uomini di grande fede, o di grande creatività, sarebbe di per sé bastato a produrre
simili rivoluzioni antropologiche se il passato fosse stato liquidato, o considerato
oggetto d’interesse marginale; se non fosse esistita la ferma convinzione che la
sopravvivenza del passato avesse delle precise ragioni, e che quelle ragioni
dovessero essere approfondite, riportate a una significatività attuale.

I predicatori medievali hanno posto accenti propri su quelle sfumature e su quelle
evoluzioni del pensiero dei loro predecessori che erano loro più vicine e che, più delle altre,
rispondevano alle richieste del loro tempo. Ciò nondimeno, in questo caso [...] ci siamo
imbattuti in una reinterpretazione profonda, radicale, del contenuto della parabola
evangelica, che viene riempita di un significato completamente diverso. Sotto il velo di
un’esegesi tradizionale delle Sacre Scritture viene proposta una nuova concezione
dell’uomo13.

Questa digressione in campi all’apparenza lontani dalla scuola fornisce, a mio
modesto parere, un utile insegnamento a suo riguardo. Lascia cioè intendere la
dannosità dell’attuale insistenza sul momento pratico degli apprendimenti a
danno del momento teorico, che è stata agevolata proprio dall’irragionevole
credo dei nemici della trasmissione della conoscenza: infatti è più facile
proteggere e conservare i vuoti gesti anziché la consapevolezza del loro
significato14.

L’insistenza sulla pratica fece la sua comparsa nell’universo pedagogico
diversi decenni fa, e in seguito si ripresentò celandosi all’interno dello
sgangherato cavallo di Troia delle «competenze»15. Ma finché non si affermerà
senza ipocrisia che la scuola non ha il compito di formare il pensiero critico e
che deve limitarsi ad addestrare un lavoratore che sappia ben ripetere una serie di
istruzioni (questo, tra l’altro, non è affatto il lavoratore di cui ci sarà davvero
bisogno aggiungo bensì quello che ora appare nelle previsioni dei bisogni, in
un evidente errore storicistico) allora l’insistenza smodata sulla pratica
perpetuerà la propria offesa verso l’intelligenza. Nel caso della tradizione liceale,
poi, l’accento programmatico sulla competenza rasenta l’assurdo poiché
.sottintende che, prima dell’era del «saper fare», coloro che uscivano da quelle
scuole non erano che individui destinati al fallimento professionale.

Ogni sapere pratico ha in sé una teoria che lo sostiene e, proprio per questo,
può rivelarsi utilissimo nella comprensione di quest’ultima. Tuttavia, quando il
momento teorico è trascurato oppure resta implicito, le sole conoscenze pratiche
finiscono col favorire la ripetizione pedissequa di schemi e metodi, almeno
finché il loro presupposto teorico non è falsificato, corretto, rimpiazzato o
stravolto da qualcuno che se ne occupi ponendosi su un altro piano. Non è affatto
vero che la pratica e la teoria non interagiscono tra loro, giacché possono farlo
con profitto; eppure è senza dubbio vero che, se la teoria senza pratica è
impotente, la pratica senza teoria è cieca.

Tornare a dare valore al momento teorico e a ciò di cui esso si nutre, nelle
scuole e nelle università, è l’unico modo in nostro possesso per imparare a
distinguere le migliorie dai cambiamenti infruttuosi, liberandoci dalla malattia
nuovista che esorta da troppi decenni ad affrontare la ridda dei mille problemi
italiani in ogni ambito civile ricorrendo ad uno sgradevole guazzabuglio di
attivismo e praticismo, conditi con il desiderio di rottamare quanto proviene dal
passato per ricominciare da zero; quasi che il bisogno di agire, e di gran lena,
rendesse indispensabile l’eliminazione d’ogni indugio intellettuale, d’ogni analisi
e riflessione di senso compiuto, come fossero una zavorra.

La difficoltà è esattamente questa: far comprendere ai cosiddetti nuovisti
l’apparente paradosso per cui una scuola davvero viva, e dunque mobile e
solidale con la società, è una scuola che si rapporta al patrimonio di conoscenze
trasmesse dal passato sapendo di dovere ogni volta ripartire proprio da lì, perché
è nello sforzo di comprensione di ciò che non possediamo al meglio, di ciò che è
cambiato, di ciò che siamo stati capaci di fare ed essere, che noi usciamo da noi
stessi e ci vediamo per quello che siamo, nelle nostre reali potenzialità e nelle
nostre miserie.

Note
1 Un campionario di questa diffusissima mentalità si trova al sito <http://www.democraziaoggi.it/?p=4378>,
dove è pubblicizzata un’iniziativa del CIDI, un’importante associazione nazionale degli insegnanti di ogni ordine
e grado. Credo che uno degli esponenti più illustri di questo modo di pensare sia stato Luigi Berlinguer, che fu
anche ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000.

2 La consapevolezza della propria discontinuità rispetto al passato non equivale affatto alla trascuratezza
del proprio passato.
3 In Riflessioni sulla Rivoluzione francese, trad. it., in Scritti politici, Utet, Torino, 1963, pag. 257.

4 L’antesignano più illustre di questo desiderio d’azzeramento in educazione è Jean-Jacques Rousseau
(1712-1778), il quale insofferente in modo patologico alla modernità aveva ereditato la vocazione a
far tabula rasa attorno all’individuo dalla filosofia di Platone (come fu ben descritto da K. R. Popper ne
La società aperta e i suoi nemici) e l’aveva poi coniugata con un sensismo ingenuo ed irrazionalistico. I
suoi eredi furono molteplici e molto influenti. Qui vale la pena ricordare che questa influenza operò su
due fronti diversi, per così dire opposti: da un lato agì su una parte della cultura di sinistra interessata a
recuperare illustri antecedenti al pensiero politico-economico di K. Marx (per l’estero ricordo almeno
Luis Althusser; per l’Italia menziono gli studi di Galvano della Volpe, Lucio Colletti, Mario Dal Pra, che
alla lunga purtroppo contribuirono alla marginalizzazione dell’illuminata visione della scuola di
Antonio Gramsci); dall’altro lato agì su John Dewey e, benché di rimando, sull’idea di scuola dibattuta
negli Stati Uniti (sul rapporto di continuità tra la pedagogia di Dewey e quella di Rousseau suggerisco la
lettura di Henry T. Edmondson, John Dewey And The Decline Of American Education, Isi books, 2006).

5 Aron Gurevič, La nascita dell’individuo nell’Europa medievale, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 228. Alle
pp. 226-227 si legge pure «gli autori medievali non si stancano di ricorrere all’aiuto di forme di
raffigurazione dell’uomo sussunte dalla tradizione, ereditata in particolare dall’antichità [...] allo stesso
modo si comportarono anche i pittori e gli scultori medievali: re, imperatori, papi, prìncipi, padri della
Chiesa, santi, negli affreschi, nelle miniature dei libri e nelle sculture, sono del tutto privi di individualità
vitale, benché siano forniti di tratti che ne esprimono lo status sociale, politico o spirituale». La persona
cercava insomma realizzazione nella subordinazione del proprio io al prototipo offerto.

6 Per questo ed altri aspetti del tema qui trattato suggerisco la lettura del breve saggio di Paul Oskar
Kristeller Creatività e Tradizione, pubblicato sul «Journal of the History of Ideas», XLIV, 1983, pp. 105-
113 (tradotto in italiano come Postfazione al libro Il pensiero e le arti nel Rinascimento, Donzelli, 1998) e
riportato anche nella sezione di raccolta testi di <https://anticitera.org>.

7 Aristotele, Metafisica, libro II, 1, 993b, 20-21, qui nelledizione a cura di Giovanni Reale, Edizioni Vita
e Pensiero, Milano, 1993, vol. II, p. 73.

8 Per tutto questa sezione invito alla lettura di: Lucio Russo, Emanuela Santoni, Ingegni minuti,
Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 66-139. Lo studio, tra le altre cose, affronta la questione del debito
rinascimentale verso il mondo classico proprio per quel che concerne la prospettiva.

9 Si veda almeno Anthony Blunt, Teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al Manierismo, Einaudi,
2001


10 Si pensi a come un infante o un migrante adulto che non frequenti una scuola apprendono le nuove
strutture linguistiche: prima di raggiungere un certo controllo, prima d’essere consapevoli, creativi e
flessibili sul piano dell’espressività essi impiegheranno molti anni. Solo lo studio della grammatica (cioè
del momento teorico) può accelerare la crescita espressiva e – insieme – ideativa del parlante, che
altrimenti tenderà a servirsi di locuzioni trite, forme idiomatiche rigide, prive di sfumature.

11 Non per caso possiamo far risalire al primo Rinascimento anche la graduale separazione tra arti
maggiori ed arti minori (o applicate) nel noto rapporto gerarchico che riprendeva e modificava la
precedente divisione tra arti liberali e meccaniche (o mestieri). Nei fatti, le arti applicate si trovarono
prive di un sostegno teorico di rilievo, almeno fino all’epoca industriale. Sull’argomento si veda l’ottimo
lavoro di Ferdinando Bologna Dalle arti minori all’industrial design, Laterza, Bari, 1972.

12 Matteo, 25, 14-30.

13 Aron Gurevič, Ibidem, p. 202.

14 Rousseau stesso, nemico giurato del sapere libresco e degli studiosi, affidava alle esperienze concrete
lo sviluppo dell’intelligenza del suo Emilio.

15 Non è affatto trascurabile il fatto che oggi, in ogni ordine di scuola, sia fortemente promossa da
dirigenti e pedagogisti la cosiddetta "programmazione per competenze".


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